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THE SMASHING PUMPKINS – Cyr (Sumerian – 2020)

Sono sempre stato affascinato dalle band che cambiano completamente direzione stilistica nel corso della loro carriera. È vero, sono tra quelli che si attendevano il ritorno dei Metallica agli anni ’80 subito dopo il Black Album nonché il ritorno di Di’Anno nei Maiden dopo l’abbandono di Dickinson nello stesso periodo, ma a parte questi furori giovanili ho imparato ad apprezzare gli intenti sperimentali, quando guidati da sincera volontà di “ricerca”.

Spesso gli effetti sono scioccanti, come quando si confrontano “Rocka Rolla” e “Jugulator”, o “War and Pain” e “The Outer Limits” ma in genere i risultati sono interessanti (e il caso dei Voivod ne è la dimostrazione…). Tale caratteristica però mal si sposa con il fatto che non sono mai stato troppo affascinato dagli Smashing Pumpkins; un male, perché loro sono l’esempio perfetto di simili evoluzioni, e non da adesso. Sarà l’astio per la timbrica vocale di Corgan? In effetti, ho iniziato ad apprezzarla per davvero dopo il duetto con Iommi su “Black Oblivion”. Sarà anche l’antipatia per via dello scontro con l’eterno rivale Kurt? Beh, per quello di acqua ne è passata sotto i ponti e intanto Courtney è tornata per poi andar via di nuovo, rendendo comunque evidenti le capacità “autoriali” del Nostro – una cosa tipicamente italiana, quello di scrivere canzoni per altri oltre a essere un interprete… avrà mica lontane ascendenze peninsulari?

Venendo a “Cyr”, il tappeto sonoro creato da Corgan su questo nuovo disco è confortevole, in un eterno ritorno a quegli anni ’80 tanto odiati quanto inseguiti, a partire dagli arrangiamenti fino ai ritmi scarni di batteria, fino alle ammiccanti melodie vocali che – per inciso – sono l’elemento che più mi ha convinto a metter mano a questa recensione sin dai primi singoli ascoltati. Ecco, lo dico subito: il problema di questo disco è soprattutto quello di reggersi su una manciata di singoli d’effetto, laddove la tracklist è davvero troppo lunga (venti pezzi!), in una sorta di mania di grandezza da cui non sono stati immuni neanche gli artisti citati in apertura ma che le Zucche avevano già dimostrato sul classico “Mellon Collie and the Infinite Sadness”, un doppio fuori tempo massimo eppure amatissimo da una certa frangia di aficionados.

Così, l’opener “The Colour of Love” scorre sinuosa e senza tentennamenti, mentre il brano più bello resta proprio la title track, costruita con maestria, con la voce per me fastidiosissima ma pur sempre distintiva del buon Billy che si insinua tra le armonie suadenti, riempendone i vuoti in maniera naturalissima. Quando si parla di sonorità tipicamente anni ’80 i numi tutelari sono talmente tanti che me ne vengono in mente pochi, eppure se in apertura è impossibile non pensare a Morrisey, “Wrath” e “Ramona” sono troppo stilose persino per gli Smiths, laddove “Starrcraft” ma anche “Save Your Tears” scadono nell’eccesso yuppie – e soprattutto… servono davvero? Ecco, la magia ammaliatrice di Corgan emerge su “Black Forest, Black Hills” salvo avere il sapore di un’occasione perduta nel dipanarsi della track, mentre è “Wyttch” a fungere da gradito ponte col passato.

Chamberlin doveva essere il motore di una suggestione prog dal sapore vintage, e invece gli mancano solo i suoni di batteria di “Desaparecido” per calarsi completamente nella parte del figlio degli Eighties, mentre poco spazio è lasciato all’operato dei comprimari Schroeder e Iha (il redivivo!) alle chitarre. Peraltro, su “Haunted” credevo davvero di sentire a tratti i Depeche Mode e a tratti addirittura Blonde Redhead, con gli inglesi che riaffiorano su “Schaudenfreud” e i newyorkesi che fungono da nume tutelare di “Minerva”, un po’ la “Equus” della situazione, il finale che brilla nonostante tutto di luce propria. Insomma, vedrei bene “Cyr” nella soundtrack di qualche bel film dal sapore neo-ottantiano – che ne dite di un ipotetico “Ritorno al Futuro 4”? In realtà, l’effetto straniante scaturisce dall’unione tra le sonorità del decennio in questione e una voce che non fa affatto parte di “quel” mondo.

Pensate: gli arcinemici dell’epoca New Romantic ora stretti in un abbraccio mortale con gli alfieri del ritorno del rock… anche se questa visione degli anni ’70 come Eden primigenio era più costruita dalla stampa che altro, come ben cantava Mike Watt nel suo “Against the Seventies” insieme a Vedder, Grohl e Novoselic, l’allegra combriccola del grunge.

Voto: 6,5/10
Francesco Faniello

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