Ma che burloni gli Yattafunk! E poi, voglio dire… io non ho la minima idea di come si faccia a fare un disco così, ad avere un’attitudine di questo tipo! Sono sempre stato un ammiratore di gente come Tossic, Nanowar of Steel o Gli Atroci, solo per citare un po’ di nomi che vengono in mente quando si parla di attitudine ironica al verbo del metallo in Italia.
Attenzione, ho detto “attitudine ironica” e non “metal demenziale”, perché ho grande rispetto per chi riesce a combinare l’amore per un certo genere di musica con un approccio che non si prenda troppo sul serio – a differenza di quanto capita all’estremo opposto, con connotazioni a volte anche più “comiche” di chi adotta certe strategie di proposito. Bene, conclusa questa premessa non mi resta che aggiungere che gli Yattafunk sono tra quelli che… se non ci fossero, bisognerebbe inventarli!
Anche perché, rispetto ad altri nomi che vengono in mente, il quartetto romano è ben lontano dall’impostazione “classica” del genere, e preferisce servirsi delle contaminazioni fiorite a cavallo tra fine anni ’80 e anni ’90 per diffondere il suo verbo di salace ironia e sarcasmo; dunque, spazio a quelle influenze funk che avevano già trovato terreno fertile sul debut “Yattafunk Sucks”, con in più però un deciso indurimento del suono per via del mutare delle fonti a cui si attinge: dentro Faith No More e Living Colour, insieme però a una decisa sferzata “Metallica” (sì, parlo proprio dei quattro cavalieri di Frisco). Questo è ben evidente nell’incipit di “Bad Motherfucker”, che realizza un mash up tra “Master of Puppets” e “And Justice for All” prima di lasciare spazio al classico refrain di “Paranoid”, qui inserito a mo’ di sirena di un qualche episodio di “Scuola di polizia”.
Certo, se volete cercare i riferimenti la caccia è aperta, ma l’intento verrà rovinosamente sommerso dalla carica adrenalinica di entusiasmo che sprizza dalle otto tracce incluse, tra cui spiccano senz’altro “MOTU Generation”, tra Metallica e Faith No More, ma anche “I’m on the Run”, sorta di incubo priestiano in salsa hetfieldiana. E a proposito di incubi, a rallegrare l’atmosfera ripuntando l’orologio sugli anni ’80 ci pensa la cover di “Ghostbusters”, bella e convincente con i suoi inserti jacksoniani, per non parlare della title track, che prova a rimescolare ulteriormente qualche cliché tipicamente Eighties – ci avrei visto bene un videoclip, nevvero?
In definitiva, un passo avanti per Funk Norris e soci, che a una maggiore maturità compositiva rispetto al debutto aggiungono anche una certa accuratezza nei suoni, che erano tra i nei del predecessore. Meno slap, più groove, meno Infectious Grooves, più Metallica: Trujillo approva in ogni caso!
Voto: 7,5/10
Francesco Faniello
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