Live Report

GODS OF METAL 2004 – Arena Parco Nord, Bologna – 05-06/06/2004

Poche note da premettere al report dell’dizione 2004 del Gods Of Metal. In primis, la lieta novità della nuova location che ha ospitato la kermesse, questa volta spostata a Bologna, con l’ulteriore riduzione di chilometri per tutti coloro che venivano dal sud o dalle isole e poi la sistemazione nell’Arena Parco Nord, luogo sufficientemente adatto a questo tipo di evento e speriamo riutilizzato in futuro. In merito, una considerazione che andava fatta dopo le sciagurate scelte delle edizioni 2001 e 2003.


Per i controlli ai cancelli, no problem per fotocamere, videocamere o quant’altro, tuttavia i problemi arrivavano dal divieto delle bottiglie d’acqua di plastica dal litro in su (all’ingresso ci si doveva presentare solo con bottiglie da mezzo litro rigorosamente senza tappo) e vabbè, ma poi la beffa veniva all’interno dell’arena, dove per acquistare una bottiglietta da mezzo litro anch’essa, manco a dirlo senza tappo, bisognava sborsare la bellezza di 1.5 euro (badate, 3000 delle vecchie lire) per un bene di primaria importanza; lasciamo pure da parte gelati, birre e panini; ma l’acqua no!!!
Invece per quanto riguarda i protagonisti, menzione particolare ai Judas Priest autori di una prova impeccabile e boa di salvataggio di un tempestoso e fin lì poco entusiasmante sabato, alle sorprese Anathema e Quireboys che partiti in sordina hanno strappato applausi, alle conferme sempre positive e scontate di Motorhead, W.A.S.P., Testament, Twisted Sister e quel mattacchione di Alice Cooper che con esperienza e carisma ha ‘soddisfatto’ a suo modo, ed ai Rage e Sodom un meritato premio di consolazione perchè con la loro mezzora a disposizione hanno con onore fatto il loro dovere. Inoltre un plauso va al popolo metal, delle vere ‘pellacce’ sotto il diluvio di proporzioni bibliche: questo Gods verrà ricordato anche per questo.

SABATO 5 GIUGNO

Dark Lunacy: la band capitolina offre una buona prestazione e riesce così ad esorcizzare al meglio l’handicap di essere la prima ad aprire il festival. Di sicuro per loro, che a mio parere hanno tutte le credenziali per affermarsi, un’esclusiva vetrina per farsi conoscere dal grande pubblico, italiano e non solo.

Into Eternity: un’incognita per il sottoscritto ma credo anche per tanti altri, costituivano forse la sorpresa (rivelatasi poi negativa) della giornata. Non si è capito da che parte volessero stare, con una fattispecie di powerthrashingblackdeath(?) di medio-basso livello e con un concetto dell’originalità alquanto contorto. Esibizione passata inosservata e tiratina d’orecchie ai promoters che si potevano risparmiare questa chiamata dal Canada, a favore di qualche altra più valida band italiana.

Domine: è incredibile l’impennata di popolarità (strameritata) che ha avuto la band fiorentina in questi anni. E’ l’ennesima volta che mi capita di assistere ad un loro show e ogni volta i loro fans crescono di numero. Al G.O.M. di questo anno i supporters erano molti e si sono fatti sentire, nonostante l’ora ed il caldo. Suono quasi discreto (ad eccezione di keyboards troppo basse), compatto e potente come sempre con Morby ed il batterista grandi protagonisti del loro show. Setlist prevedibile, con ormai super classici come “Thunderstorm” o “Dragonlord” e qualcosa dall’ultima fatica come l’epicissima “The Aquilonia Suite”.

Rage: temperatura in costante aumento e con i tedeschi Rage comincia a salire anche l’interesse di un’audience fino a quel momento alle prese con la prima tintarella primaverile. Peavy e soci hanno offerto un’eccellente prova di potenza, mettendo a ferro e fuoco il pubblico sotto il sole cocente. Attitudine aggressiva e coinvolgente la loro, dove si mostrava in evidenza Mike Terrana, un gran pestone dietro le pelli. Brani tratti solo dal vecchio repertorio, dove ha brillato la nostalgica “Donï You Feel The Winter, in uno show tra i più brevi della giornata. Peccato!

Anathema: non li conosco molto bene ma mi hanno ben impressionato. La loro partecipazione al G.O.M. sarà stata più di una scommessa, quindi forse la collocazione della band inglese in questo festival è risultata un pò fuori contesto già a priori, ma alla fine da quel che mi è sembrato ne sono usciti con onore vincitori, considerando poi che per loro il fatto di dover suonare di giorno poteva rappresentare più che altro un handicap. Esibizione dalle forti atmosfere ipnotiche, molto passionale e meritevole di ben altra considerazione, dove sono stati snocciolati brani vecchi e nuovi con tranquillità e padronanza dello stage. Musica che ha spiazzato e spaziato dal doom che li ha contraddistinti più in un remoto passato, fino ad arrivare all’ultima tendenza che strizza l’occhio verso un rock-wave ai limiti con la psichedelia. Momento toccante nell’esecuzione della conclusiva cover dei Pink Floyd “Confortably Numb”, che ha messo d’accordo tutti. Il Gods di quest’anno evidentemente aveva bisogno di una prova tra ricercatezza ed eleganza.

Symphony X: in preda alle primi sintomi da insolazione, ho dovuto rigenerarmi all’ombra di un grande albero (l’unico!) niente da fare per poter assistere alla loro esibizione.

Nevermore: potenzialmente dovrebbero essere una grande band e lo si vede anche da come cercano di addomesticare per bene i loro supporters ma purtroppo la prestazione non è del tutto convincente, macchiata oltretutto (ma non è colpa loro) da un’acustica penosa ed irritante. Warrel Dane sullo stage si ispira a movenze lente, con fare teatrale, eccentrico, ma a corde vocali diciamo che non è la sua giornata migliore mentre il resto della band svolge più che egregiamente il suo compito. Non me la sento di esprimere comunque un giudizio definitivo sul loro show in quanto ho dovuto anzitempo lasciare il campo e provvedere a mettermi in salvo dal nubifragio che da lì a poco si sarebbe abbattuto in zona.

Ufo: nessun avvistamento di Ufo sui cieli di Bologna a parte gli scherzi, sono loro le vittime della violenta grandinata che ha costretto gli addetti ai lavori e per ovvi motivi, a far saltare il concerto. Un vero peccato comunque non vedere in azione Michael Shenker e soci.

Stratovarius: per il gruppo di Timo Tolkki, la stessa sorte che ha toccato gli Ufo, con l’unica differenza che per loro ci sarà un’altra chance il giorno dopo.

Judas Priest: non c’è niente da controbattere: loro sono l’HEAVY METAL!!!
Enorme, immenso il loro show! Non c’è dubbio che questo spettacolo rimanga impresso per lungo, lunghissimo tempo nella memoria di tutti quelli che vi hanno assistito. Si possono tranquillamente mettere da parte tutte le verità o presunte tali su questa reunion tra Halford e i suoi vecchi compagni, solo chiacchiere poichè contano i fatti, ed in effetti in due ore di concerto, hanno saputo dimostrare di essere ancora i migliori e di non temere alcun sterile paragone con il loro passato. Ovvio che gli occhi erano puntati sul figliol prodigo Rob Halford, ed ecco che prontamente questi ci sforna una prestazione vocale impressionante, coadiuvato da un suono perfetto, preciso pulito e potente come è nello stile della band, senza particolari effetti coreografici. Sulla scaletta dei pezzi era prevedibile una sorta di revival di classici e così è stato: “Hellion/Electric Eye”, l’inno di sempre “Metal Gods” e poi “The Ripper”, “Touch Of Evil” e la splendida ï”he Sentinel” e ancora “Victim Of Changes”, “Breaking The Law” e la furiosa “Painkiller” che ha mandato in delirio l’intera arena, ma spazio anche per “The Green Manalishi (With The Two Pronged Crown)” ed il bis finale composto da “Hell Bent For Leather” con Halford in sella alla mitica Harley Davidson, “Living After Midnight”, “United” e “You Got Another Thing Coming”. Certamente uno spettacolo ad effetto dove è contata si la bravura e il carisma della band ma dove ha soprattutto prevalso il fattore emozione di un pubblico che aspettava questa reunion da tempo.

DOMENICA 6 GIUGNO

Dragonforce: nemmeno l’ombra, anzi qualcuno gli ha avvistati sembra nel backstage, comunque sia, prime vittime della regola della giornata, ossia, quello di stringere i tempi (ci sono da recuperare gl????;??????i Stratovarius).

Stormlord: il gruppo capitolino fa il suo dovere, l’organizzazione no! Show brevissimo e suoni inadeguati, e vabbè che bisogna accorciare i tempi, ma il biglietto l’abbiamo pagato tutti e ci è costato!

Naglfar: un pò pesci fuor d’acqua come gli Anathema nel primo giorno. Il loro compito viene eseguito nel possibile della decenza per via di suoni pessimi (e che diamine!). Non � il loro ambiente ma si comportano da veri professionisti incitando per bene il pubblico, dove i seguaci del black sono in netta minoranza.

Sodom: pochi sussulti con il trio tedesco che presenta un setlist alquanto tranquillo, per intenderci “Remember The Fallen”, “The Vice Of Killing”, “The Saw Is The Law” o “Napalm In The Morning” ad eccezione dell’unica song da craniate come “Sodomized” e due superclassici come “Outbreak Of Evil” e “Bombenhagel. Punto e basta, in meno di mezz’ora non si può ottenere molto se aggiungiamo poi i mille problemi tecnici. Gli incitamenti da parte dei sostenitori non si fanno attendere e i nostri nonostante tutto producono uno spettacolo intenso. Alla fine un buon Angelripper che regala poster e foto a quelli delle prime file. Una band sempre da applausi.

Quireboys: me li ricordo all’apice del successo nei primissimi anni ’90. Oggi molte cose sono cambiate, ma evidentemente per loro il tempo si è fermato. Il loro show è racchiuso in una sola parola: Rock’n’Roll. Semplici e diretti, con quell’aria un pò vintage e sbarazzina che fa divertire il pubblico; il carismatico Spike, non si risparmia a regalare sorrisi e ad ammiccare a un pubblico già rapito alle prime battute dei classici di “Hey You”, “This Is Rock’n’Roll” o “7 O’Clock”. Dall’ultima release invece ho potuto riconoscere “Lorraine Lorraine” e “Good To See You”. Temevo una fredda accoglienza, fortunatamente mi sbagliavo. Per il risultato, quasi un trionfo.

Stratovarius: non me la sento di esprimere giudizi su una band che non mi ha mai conquistato, quindi, No Comment!

W.A.S.P.: sono ogni volta garanzia di ottimo spettacolo. E’ ormai risaputo che i W.A.S.P. sono e restano Blackie Lawless, è lui il punto di riferimento che prende per mano i suoi fidi compari di band e manipola a suo modo l’audience, ora più di prima che ormai il folle chitarrista Chris Holmes non c’è più. Ragionevole la scelta di offrire una scaletta incentrata solo sul classico repertorio e badando al sodo. Con un tocco in più a livello scenografico rispetto alle altre band, il gruppo ha offerto una prestazione senza pause, anzi tirata tutta d’un fiato, infiammando la platea che conosceva pezzi quali “L.O.V.E. Machine” o “Animal (Fuck Like A Beast)” a memoria. Immancabili poi i capisaldi finali “I Wanna Be Somebody” e “Blind In Texas” sempre graditi, trascinanti e festaioli. Unica macchia per uno show strepitoso, la resa sonora non impeccabile.

Twisted Sister: “We are the original Twisted fuckin’ Sister, Dee Snider, OJ Pero, Jay Jay French, Eddie Oieda, Mark Mendoza…We are the original Twisted fuckin’ Sister!!!.
Così urla al pubblico bolognese un super eccitato Dee Snider, quasi a voler confermare a tutti i più scettici che sotto a qualche parrucca e make up da baldraccone ci fossero proprio loro e non dei giovani sosia. Ammetto che anch’io come tante, tantissime persone ero lì maggiormente per loro, ovvero per un evento che non so se avremo la possibilità di rivivere futuro. La mia memoria inevitabilmente mi porta a circa venti anni fa circa, quando questi cinque scatenati newyorkesi, fecero tappa nella nostra penisola in supporto ai Motorhead, facendo quasi sfigurare questi ultimi per le loro incendiare performance. Incredibile oggi osservare come questi arzilli cinquantenni riescano in pochissimo tempo a conquistare tutti, ma proprio tutti, con un’energia sovraumana. Parlavamo di parrucche? Parlavamo di look stravagante e pacchiano? Beh, questo fa parte poi dello spettacolo ed è questo che la gente vuole e allora vai con una serie di best seller di autentica follia rock quali “What You Don Know”, “Under The Blade”, “Burn In Hell”, l’arcinota “We�re Not Gonna Take It” e la conclusiva “I Wanna Rock”, dove sempre lui, il dominatore Dee Snider “ordina” a tutti, anche a coloro spaparanzati sulla collina, a tributargli una standing ovation strameritata.

Motorhead: solito concerto tritasassi con volumi a max, un Lemmy in gran forma e tanto, tanto divertimento, si, perchè ogni volta che si assiste ad un loro show è una festa dove vi partecipano fans di tutte le età; io stesso ho visto una signora sulla sessantina con tanto di maglietta che si esaltava sulle note delle iniziali “We Are Motorhead” e “No Class”. Si sa, i Motorhead sono una leggenda ed ogni commento su di un loro spettacolo può risultare superfluo. La scaletta è come al solito incentrata su classici sempre verdi come “Metropolis”, “Killed By Dead” (con Dee Snider come super esaltata special guest), “Over The Top” e le ripescate “Shoot You In The Back” e “Doctor Rock”, affiancate da alcune rappresentanze dell’ultimo decennio come “Civil War”, “Going To Brazil”, “Sacrifice” e la cover “God Save The Queen”. Facile notare nostro malgrado di come lo show scorra via molto veloce, estromettendo clamorosamente songs del calibro di “Bomber”, “Orgasmatron” o “Born To Raise Hell”, mah, se poi faccio bene i conti mi sembra che i pezzi suonati siano stati meno di quelli del precedente G.O.M. 2001, eh si, oggi si va velocissimi. Polemiche a parte, curioso assistere Lemmy vedere prima tra il sorpreso ed il divertito un solitario invasore di palco sbucato alle sue spalle e poi svegliare con toni ironici e con le conclusive ed esplosive “Ace Of Spades” e “Overkill” un pubblico non adeguatamente partecipe, fiaccato dalla stanchezza e dal caldo. Immortali!

Testament: è un traguardo importante per i Testament essere co-headliner in un festival come questo. Negli ultimi anni l�interesse verso di loro è cresciuto notevolmente e in ogni situazione il pubblico gli acclama (e dire che anni addietro vivevano purtroppo all’ombra di Metallica e Slayer). Personalmente considero oggi i Testament una sorta di supergruppo, che può contare su una sezione ritmica impressionante (Steve Di Giorgio e Paul Bostaph vi dicono qualcosa?), oltre al nuovo valido innesto dell’ex Halford Metal Mike alla chitarra solista (trovato a mio avviso ancora un pò impacciato) e ai due veterani Eric Peterson e Chuck Billy. Proprio quest’ultimo, apparso in grande spolvero anche fisicamente, ha testimoniato il fatto di come la band stia vivendo una seconda giovinezza. E’ lecito aspettarsi questa sera da loro una prova maiuscola ed è così che viene messa sotto i piedi la già terremotate performance del 2000 in quel di Monza.
Inizio affidato a “D.N.R.” dove si presentano preoccupanti disguidi tecnici, poi col passare dei minuti, fortunatamente svaniti. Sulle note dei classici di “Alone In The Dark”, “Burnt Offerings” o “Into The Pit”, una folla in delirio manifesta la propria ovazione per una band in grande stato di grazia. Nessun pezzo inedito tratto dall’imminente disco in uscita viene proposto, mentre è uno spettacolo ascoltare gli inviti da parte del gigante frontman agli astanti a salire sul palco; detto fatto, con il purtroppo pessimo comportamento del personale di sicurezza a rubare la scena.
Epilogo affidato a “Disciples Of The Watch” con giallo, dove l’intero impianto viene spento a metà brano tra l’incredulità e la rabbia di tutti, Testament compresi. Evidentemente qualcuno dall’alto aveva deciso che quei due minuti alla conclusione dovevano essere di troppo.

Alice Cooper: chi si aspettava il classico show di quel diavolo di Alice Cooper, per intenderci quello con scenografie grandguignolesche, con magari qualche ghigliottina o ambientazioni al limite del paradossale che lo hanno reso celebre caposcuola del genere, sarà rimasto deluso. Infatti uno stage scarnissimo ha accolto il sessantenne rocker che ha dovuto faticare non poco per riuscire a portare a termine un’esibizione degna del suo nome e comunque nel caso più specifico, da headliner. Per quanto riguarda l’aspetto visivo del concerto, la ragione mi porta a pensare ad un taglio per motivi di tempo, in una giornata in effetti tirata tutta di fretta, mentre la scelta dei pezzi ha ripercorso in lungo e in largo gli oltre trent’anni di carriera. Un particolare percorso generazionale rappresentato da “Billion Dollar Babies”, “No More Mr. Guy”, la mitica “School’s Out”, l’amata/odiata “Poison”, “Hello Hooray”, e tante altre classiche songs, fino alle produzioni più recenti come “Brutal Planet”, “Man Of The Year” o “What Do You Want From Me?”, un buon live set interrotto solo da un lungo, interminabile e dir poco stucchevole solo di batteria. La voce di Alice va e viene, ma ad un mostro sacro si puù perdonare anche questo. Non è stata un grande prova, ma neanche mediocre, forse ci si attendeva di più per quello che doveva essere uno degli highligths della giornata.

Roberto Pasqua

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