“Profanar la tumba / al ritmo della rumba / con Fenriz y Darkthrone / Norwegian Reggaeton”… ah, scusate… non era questo l’articolo giusto! O forse sì?
Certo, la parodia / tormentone estivo a opera dei nostri Nanowar Of Steel non fa che costituire l’ennesima conferma di quanto Fenriz e Nocturno Culto siano ormai entrati nell’immaginario collettivo come simboli di un genere, di una coerenza, di una storia longeva e ricca di sorprese, dal punto di vista sia evolutivo che involutivo, sia quando hanno contribuito a forgiare quella definizione di “Norwegian black metal” che ancora fa tremare le cancellerie scandinave, che quando hanno rivolto il loro sguardo alle radici, riuscendo (a mio parere) a costituire un credibile caposaldo di sound classico, riletto attraverso l’immenso blasone a loro dovuto.
Detrattori del duo ne ho incontrati molti, specie negli ultimi anni: ma a me, che sono tutto fuorché un blackster nordeuropeo, il “nuovo / vecchio corso” dei Darkthrone non dispiace affatto. Intercettati volentieri in occasione di “The Underground Resistance”, che resta uno dei dischi da me più ascoltati nella prima parte del decennio, ho poi saltato l’appuntamento recensorio con “Artic Thunder” più per pigrizia che per l’effettivo valore del disco, assolutamente non in discussione.
Ecco, “Old Star” riprende quanto seminato da entrambi, migliorando il tiro di “Artic Thunder” e lasciandosi alle spalle anche alcuni degli imperdibili barocchismi del suo predecessore. Lo fa con una magniloquenza conferita dalla semplicità dei mezzi a cui i due mastermind ci hanno abituati nel tempo, e la dicotomia è ben evidente in un’opener come “I Muffle Your Inner Choir”, un concentrato di riff che rinnovano il manuale del black primigenio – quello verace degli anni ’80 – e una dichiarazione di intenti che ritroveremo in ognuno dei sei pezzi che compongono la tracklist.
Sia che premano sull’acceleratore come nell’opener (omaggiando gli Hellhammer e i Celtic Frost di “Morbid Tales”!), sia che riducano la velocità in maniera morbosa addentrandosi nei meandri dell’avantgarde frostiano, come avviene magistralmente su “The Hardship of the Scots” e sulla title track, i Darkthrone si accreditano ancora una volta come la band che stavamo aspettando per riscrivere i canoni di un genere professando ancora una volta devozione e aderenza a esso.
Poco importa che l’incipit del secondo brano sembri una versione infernale del classico degli Ac/Dc “Let me put my love into you”, importa ancora meno che il finale di “The Key is inside the Wall” renda il giusto omaggio al Re Diamante e al Fato Misericordioso ricalcando “Come to the Sabbath”: “Old Star” è un parco divertimenti per chiunque sia innamorato di determinate sonorità, un continuo carosello di attrazioni che trova nel break funereo di “Alp Man” anche il suo ideale carillon. Affrettatevi a prendere un biglietto: altro giro, altra corsa!
Francesco Faniello