Se letto in termini puramente biografici, un titolo come “Resurrection Day” potrebbe trarre in inganno, in quanto non c’è stata una vera e propria resurrezione, semplicemente perché i Rage non sono mai morti. È innegabile che abbiano avuto dei periodi di appannamento, dovuti ai molteplici cambi di formazione, ma in trentasei anni di carriera hanno portato avanti il verbo del puro metallo potente e melodico, con coerenza e dedizione, riuscendo con immensa classe a rinfrescare sempre il loro sound, inserendo ogni volta elementi che vanno dallo speed al thrash fino ad arrivare alla musica classica.
Questo è merito sopratutto del loro leader Peter “Peavy” Wagner, che ha saputo guidare la band a livello umano, manageriale e sopratutto compositivo, riuscendo a farle guadagnare nel tempo un’importanza di primo livello nel panorama del metal teutonico ed europeo.
Dopo la fuoriuscita di Victor Smolski e André Hilgers e l’ingresso di Vassilios “Lucky” Maniatopoulos e Marcos Rodríguez, la band ha intrapreso un percorso (iniziato con il buon “The Devil Strikes Again” e culminata con l’ottimo “Wings of Rage”) finalizzato alla riscoperta delle loro radici più spontanee e aggressive, a scapito di quell’approccio più raffinato e virtuoso che aveva caratterizzato i lavori da “Speak of the Dead” in poi.
Neanche a dirlo, questo “Resurrection Day” si presenta ai box con l’ennesimo cambio di formazione: fuori Marcos Rodriguez e dentro a sorpresa due chitarristi, Stefan Weber ( ex Axxis) e il semisconosciuto Jean Bormann. Questa ennesima rivoluzione ha generato intorno all’album molta curiosità ma allo stesso tempo la paura di ritrovarsi tra le mani un disco mediocre, o comunque di “assestamento”, proprio come furono ai tempi “Ghosts” e “Welcome to the Other Side”.
Basta poco più di un quarto d’ora per spazzare via ogni timore, e due ascolti completi per capire che non solo il disco in questione è ai livelli del già ottimo precedessore “Wings Of Rage”, ma per lunghi tratti lo supera nettamente, specialmente per qualità compositiva.
La doppia chitarra, da pericolosa incognita, si rivela una delle armi vincenti di questo disco. La coppia funziona a meraviglia: entrambi tecnici al punto giusto, e con un gusto che si sposa benissimo con le idee del loro mastermind, essi sono il perfetto esempio di come due asce dovrebbero essere usate per dare una marcia in più a tutto l’insieme.
Peavy è un vulcano in continua eruzione, ma invece di sputare lava dipinge il cielo con melodie fuori dal comune, capaci ancora di far correre i brividi dietro la schiena (sfido chiunque a rimanere indifferente durante l’ascolto di pezzi come “Momentary Gods” e “A new Land”). Vassilios “Lucky” Maniatopoulos dietro le pelli non avrà probabilmente la tecnica dei suoi più recenti predecessori, ma svolge il suo lavoro in modo egregio ed equilibrato, dando alle composizioni una buona dinamicità senza strafare e perdersi in inutili virtuosismi.
Il feeling di “Black in Mind” ed “End of All Days” è predominante, ma il caro buon vecchio Peavy in fase di composizione ha saputo raccogliere in modo equilibrato tutte le componenti delle varie fasi della band rendendo il disco un perfetto mix emotivo e stilistico di tutto quello che i Rage hanno rappresentato in quattro decadi.
Si va ad esempio dalle novantiane “A new land” e “Resurrection Day” a “Man in Chains”, che richiama per struttura e lavoro ritmico l’era Smolsky / Terrana. Se “Traveling Through Time” riprende in qualche modo il discorso “Lingua Mortis” e “XIII”, la furiosa “Extinction Overkill” – se non fosse per la produzione moderna e la voce rauca di Peavy – potrebbe trovar posto nel primordiale “Reign of Fear” se non addirittura nei lavori targati ancora Avenger. Anche la malinconia di album come “Reflections of a Shadow” e “Ghosts” rivive nella ballata “Black Room”.
I suoni sono meno compatti e più dinamici, rispetto agli album precedenti, dando un approccio più live e meno freddo, specialmente per quanto riguarda la batteria e le ritmiche. Ascolto dopo ascolto si ha la sensazione che l’album cresca sempre di più, e di riflesso diventa sempre più difficile trovarne dei difetti. La qualità media delle canzoni è altissima, non c’è una composizione che oggettivamente spicca sulle altre, lasciando cosi il piacevole compito di stilare una classifica solo alla nostra parte più intima e soggettiva.
“Resurrection Day” farà felici, oltre ai vecchi fans dei Rage, anche chi ama il classico metal teutonico, pieno di potenza e melodia. Gli unici che storceranno il naso oltre ai classici detrattori, saranno forse i fans un po’ più recenti, cioè quelli che identificano i Rage con la stratosferica (a livello tecnico) formazione in cui Peavy era affiancato dall’accoppiata Smolsky / Terrana. Quei Rage hanno tirato fuori dei veri e propri capolavori come “Unity” e “Soundchaser”, ma sono da considerarsi una parentesi “speciale”, che dopo una valutazione a posteriori non incarna appieno il vero spirito della band, a causa probabilmente del troppo narcisismo del chitarrista russo, che è aumentato sempre di più album dopo album.
Concludendo, questo disco si candida seriamente ad essere uno dei migliori del 2021, e forse non è un azzardo considerarlo l’album più riuscito dai tempi proprio dell’accoppiata “Unity” / ”Soundchaser”.
L’ispirazione di Peavy e il ritrovato equilibrio della band lasciano ben sperare per il futuro. Sinceramente fare meglio di cosi è difficilissimo, ma da un vecchio volpone come Peavy c’è da aspettarsi di tutto (in meglio ovviamente).
Voto: 9/10
Stefano Sofia
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