La seconda parte degli anni novanta fu un periodo di rinascita per l’heavy metal classico.
Vecchi leoni come Saxon, Manowar ed Helloween tornarono a ruggire in modo autoritario, altre band si affermarono definitivamente (Gamma Ray, Stratovarius, Blind Guardian) ed altre ancora si affacciarono per la prima volta al grande pubblico, dando nuova linfa a tutto il movimento.
Tra queste ci furono gli Hammerfall, che nel 1997 invasero gli scaffali dei negozi con il loro “Glory To The Brave”, considerato oggi da molti addetti ai lavori come uno degli album simbolo di quel periodo.
La loro formula, un perfetto mix tra gli Helloween di “Walls of Jericho”, Accept e Judas Priest, colpì nel segno, spalancandogli le porte del successo. Chi da venticinque anni compra puntualmente un disco degli Hammerfall sa quasi esattamente cosa aspettarsi.
Infatti, tutto si può dire, tranne che la band svedese in tutti questi anni non sia stata coerente con se stessa: una coerenza che li ha portati nel corso del tempo a sperimentare poco o nulla, rimanendo ancorati sempre e comunque alle loro radici.
“Hammer Of Dawn” non fa certo eccezione, e prosegue il discorso iniziato a fine anni novanta ed interrotto solo momentaneamente con l’ottimo ma incompreso “Infected” del 2011.
Stilisticamente, l’approccio non cambia quasi di una virgola, salvo una leggera predilezione verso sonorità più vicine al power a discapito dei classici tempi medi rocciosi presenti in quantità maggiore negli album precedenti.
Anche tecnicamente non ci sono grosse novità: Oscar Dronjak e Pontus Norgren seguono quasi a memoria le lezioni delle celebri coppie Downing/Tipton e Weikath/Hansen, macinando riff e armonizzazioni di buon gusto con un occhio di riguardo più verso la melodia che alla tecnica fine a se stessa
La base ritmica è potente ed essenziale e non si perde in inutili fronzoli, mentre Joacim Cans si rileva come sempre un cantante poco versatile, ma incisivo nell’economia della canzone.
L’album scivola via in modo più che piacevole, mantenendo un ottima qualità compositiva, specialmente nella prima parte.
L’opener “Brotherhood” e la successiva “No son of Odin” sono classici pezzi medio/veloci in stile Hammerfall con ritornelli che rimangono in testa al primo ascolto.
La title track, altro ottimo pezzo, invece è un mid tempo orientato verso le sonorità ottantiane, con un sorprendente ed emozionante break centrale.
Se il ritornello fin troppo orecchiabile di “Reveries” farà storcere il naso a qualcuno, specialmente ai fans con qualche capello bianco in più, “Venerate Me” e “Too Old to Die Young” metteranno d’accordo tutti gli estimatori della band di Gothenburg
Nella prima (che vede come special guest King Diamond), il classico stile Hammerfall viene sfumato dalle atmosfere più evocative e oscure degli Stormwitch; mentre la seconda sembra aver viaggiato con la macchina del tempo, arrivando direttamente dal 1997: un perfetto incrocio tra l’allora sfrontatezza giovanile dei nostri e i Gamma Ray al massimo del loro splendore (“Somewhere out in Space”).
Nella seconda parte del disco, come già accennato, la qualità cala leggermente. “Live Free Or Die”, “No Mercy” e specialmente “State of the Wild” sono tutt’altro che pezzi riempitivi, ma pur essendo frizzanti e divertenti, non reggono il confronto con le canzoni analizzate precedentemente.
“Not Today”, invece è la classica ed inutile ballata che gli Hammerfall si ostinano a fare in ogni album; salvo rare eccezioni,questo tipo di composizione ha sempre rappresentato il tallone d’Achille della band.
Concludendo, come quasi tutti i suoi predecessori, “Hammer Of Dawn” è quadrato, solido è molto ispirato ma non raggiunge la magia dei primi due album (“Glory To The Brave” e “Legacy Of Kings”).
Chi si è innamorato degli Hammerfall dal primo momento ed è “cresciuto” con loro, andrà sul sicuro e passerà tre quarti d’ora più che piacevoli.
Invece, chi è molto sensibile al concetto di evoluzione a trecentosessanta gradi (stile, produzione e tecnica), può tranquillamente virare le proprie attenzioni su altro.
Li si può amare o li si può odiare, ma rimane il fatto oggettivo che il futuro del nostro genere sia anche nelle loro mani.
Certo, band con cinquant’anni di carriera alle spalle hanno nel tempo cambiato pelle per sopravvivere (ad esempio Judas Priest e Scorpions), ma è anche vero che ce ne sono altre come gli AC/DC che sono ancora qui, e l’evoluzione non sanno neanche cosa sia.
Chissà il futuro cosa riserverà ai cinque ragazzotti svedesi, ma intanto godiamoci il presente, e lasciamo che il martello ci colpisca ancora!
Voto: 7,5/10
Stefano Sofia