Ci sono voluti ben sette anni prima di rivedere nel miglior modo possibile, sorvolando quindi sulle pur ottime esibizioni al G.O.M. edizioni ’02 e ’04, la band guidata dall’enorme (in tutti i sensi) Blackie Lawless.
Infatti era dal 1997, anno del tanto discusso K.F.D., che i Wasp non si organizzassero per ben tre tappe nel nostro paese. In quella di Firenze poi, è ghiotta quindi l’occasione per verificare oltremodo il loro stato di forma, che nonostante l’età (e mi riferisco a quella del “nero” singer) ed il graduale mutamento in fatto di stile (niente più show grandguignoleschi), sembra non accennare a perdere colpi, se si tiene anche conto di come l’attenzione su di loro si manifesti sul lavoro ambizioso proposto in Neon God. Come prevedibile, l’affluenza al Tenax risulta buona, mentre sul palco di generose dimensioni, padroneggia la caratteristica asta microfono (Elvis), che da anni è diventata quasi un quinto elemento di line-up, oltre ad essere uno dei motivi di attrazione dello show. Irrompono le pale d’elicottero di “The End” dei Doors e la tensione degli astanti sale vertiginosamente, quando ecco la band che fa il suo ingresso “on stage” proponendo subito il consolidato medley d’apertura costituito da “On Your Knees”, “Inside The Electric Circus” e la sorpresa “Hate To Love Me”, la quale sostituirà a malincuore per qualcuno, la nota “Chainsaw Charlie”.
Tempo di tirare il fiato dopo l’adrenalinico trittico, che si riparte con due super classici come “L.O.V.E. Machine”e “Wild Child”, cantate a gran voce da un caloroso pubblico.
“Come Black To Black”, titolo estratto dalla seconda parte di Neon God, è la scelta vincente in quanto il brano è dinamico, ha un refrain facile da memorizzare e fa la sua buona figura in veste live. Per la sboccata “Animal” invece i commenti sono superflui; l’essenza selvaggia dei Wasp è tutta lì. Ora, un tris di canzoni ad effetto, che racchiudono a mio parere la parte più suggestiva del concerto:
“The Headless Children”, imponente nel suo incedere, “The Idol”, toccante ed intensa come poche, ed una a dir poco sconvolgente “Kill Your Pretty Face”, ricca di tragico pathos horror impreziosita dalla teatralità e dall’effetto scenico creato da Blackie Lawless, protagonista assoluto della scena.
“The Real Me” e l’inno di sempre “I Wanna Be Somebody”, chiudono la prima parte dello show, portato fino a quel punto a ritmi davvero sostenuti. Il primo bis ritorna sulle tracce di Neon God e lo fa con “Raging Storm”, con una prestazione vocale da applausi davvero meritati, mentre il gran finale è affidato al cavallo di battaglia “Blind In Texas” sempre efficace in un epilogo dai toni festosi.
Tirando le somme, una conferma di come la classe non sia acqua quindi, ed è una soddisfazione constatare l’ottimo periodo di forma di Blackie Lawless, frontman di razza, e dei suoi validi gregari. Ancora una volta il caro vecchio sfrontato rock’n’roll ha trionfato.
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