Avalon
Dietro di noi nebbia. Avanti a noi nebbia. Dietro di noi nebbia e la certezza delle terre che abbiamo lasciato. Avanti a noi nebbia e la speranza della terra che aneliamo trovare. Noi tra la nebbia, noi e il nostro dubbio. Dubitiamo che il prezzo pagato per il nostro viaggio non sia stato solo le due monete messe nella mano tremante del barcaiolo, ma che, il prezzo corrisposto sia stato due monete più la nostra anima. Ma tantè, siamo tra acqua liquida e acqua gassosa, la luce non abita qui, forse non ci ha mai abitato e forse mai ci abiterò, con un’unica certezza se il rock and roll è morto, riposa ad Avalon. Avalon terra di sogno. Avalon terra del mito. Avalon terra dove riposano Artù e i suoi cavalieri, Merlino e Morgana. Avalon terra di guerrieri. Se il beat e la psichedelica erano Atlantide (la terra delle utopie) e il progressive era l’Arcadia (la terra della pace bucolica). Avalon terra di guerrieri è la terra dell’Hard Rock. Se non fosse per lo scossone, e l’imprecazione del nostro, sin là, silenzioso ospite, non ci saremmo neanche resi conto di essere arrivati a terra. Siamo ad Avalon, lo stupore è tanto, così come la necessità di piegarci a raccogliere una manciata di terra, per percepire finalmente di non essere più tra le acque.
Prima di capire se realmente la salma si trova ad Avalon, cerchiamo di capire prima di tutto come è nato. E’ nato tutto dalla naturale esasperazione della musica che c’era prima, quindi beat, psichedelia e progressive, anche se non è possibile capire quando il rock è diventato duro. Esasperazione che non si è limitata al suono ma che è straripata anche all’immagine dei gruppi, rendendo gli eccessi del palco solo una piccola parte rispetto a quelli che erano parte consistente della vita degli artisti. Mai come per questo periodo, l’utilizzo della filastrocca sesso, droga e rock and roll non è una esagerazione. Questo era rock per persone dure, non bastava mettersi degli stivali di pelle a punta e farsi crescere i capelli, come credono le presunte rock star nostrane. Il rock di questo periodo, al di là di quanto fosse hard, nasceva dal cuore dal sudore, e non in provette televisive come accade oggi.
I primi vagiti dell’hard rock si possono ascoltare, in epoca non sospetta, grazie ai Cream. Il power trio formato da Clapton, Bruce e Baker, nel giro di un triennio, spazza via il buonismo musicale del beat e della psichedelica per approdare a sonorità ben più dure. Fresh Cream (1966), Disraeli Gears (1967) e Wheels Of Fire (1968) e l’epitaffio Goobye (1969) è quanto i Cream ci hanno lasciato, prima di cedere sotto il peso degli attriti tra le forti personalità dei tre e quindi sciogliersi.
Nello stesso anno del primo disco dei Cream, 1966, per l’Elektra fu pubblicato un disco di una band di Detroit chiamata MC5. Se Detroit era il cuore operaio degli Stati Uniti, gli MC5 ne rappresentavano il battito. L’esordio su vinile fu al fulmicotone e non poteva non essere che un live album. Kick Out The Jams, è la registrazione di un concerto tenuto al Grande Ballroom di Detroit, le canzoni sfilano una dopo l’altra con irruenza iconoclasta. Se la comunità nera dàAmerica in quel periodo iniziò ad alzare la testa per manifestare il proprio malumore, gli MC5 raccontarono che per il proletariato bianco negli USA la situazione non era tanto migliore. Il successivo Back In The USA (1970), dimostrò come le capacità esplosive del gruppo rimanevano intatte anche in studio. Energia che si andò a stemperare con il terzo ed ultimo High Time (1971), epitaffio dalle forti influenze jazz.
Abbiamo detto che la chiave di volta del movimento è stata l’esasperazione. Esempi lampanti di questa esasperazione sono i Blue Cheer e gli Iron Butterfly. I Blue Cheer sconvolsero l’America con una versione esasperata del classico del rock and roll Summertime Blues di Eddie Cochran contenuta nel loro lp di esordio Vincebus Eruptum (1968). Questa versione sembra dire: papà ti credevi un duro, ma io sono più duro di te!. Tutto il disco è destabilizzante, nessuno americano aveva mai sentito tanto “rumore” in un disco. Inutile dire che la formula si è mantenuta nel successivo Outside Inside (1968), disco discreto ma che ormai non poteva contare più sull’effetto sorpresa che aveva permesso al predecessore di giungere in classifica.
Destabilizzanti, anche se in modo diverso, sono stati gli Iron Butterfly. Autori di un primo disco Heavy (1968), fecero il botto con il successivo In-A-Gadda-Da-Vida (1968). In questo disco, di chiara impostazione psichedelica, è l’oscurità a farla da padrona. Il suono non è solo acido ma anche pesante. Il brano omonimo, una chiara storpiatura della frase In A Garden Of Eden, è uno degli hit rock di sempre con i suoi 17 minuti. Ma è tutto il disco a rappresentare un passo in avanti verso l’hard rock grazie al suono peculiare dell’organo, ai feedback chitarristici e la voce cavernosa Dougle Inge perfetta per le litanie declamate nel disco. In realtà sia i Blue Cheer che gli Iron Butterfly, pur continuando a portare avanti carriere a singhiozzo, non sono mai riusciti ad eguagliare i loro due capolavori rimanendone quasi schiacciati.
1969 ed il gioco si fa sempre più duro. Americani, anche essi di Detroit, capitanati da un fascio di nervi rispondente al nome di Iggy Pop, gli Stooges con il loro primo disco non solo fecero compiere un significativo passo avanti verso l’Hard Rock, ma gettarono il seme per il futuro movimento Punk. Il primo disco The Stooges (1969), fu la colonna sonora del disagio suburbano, fu un grosso vaffanculo a tutte le velleità pacifiste e culturali dei movimenti beat/psichedelico e progressivo. La gente moriva per le strade e The Stooges era la puzza della putrefazione e del piscio che saliva dai vicoli. Iggy non cantava, urlava in I Wanna Be Your Dog, era perversamente ossessivo in Anne e We Will Fall. I successivi Fun House (1970) e Raw Power (1973), questo ultimo uscito dopo una veloce separazione con successiva riappacificazione su invito di David Bowie, riuscirono a mantenere intatta la forza nichilista del disco di esordio. Raw Power, comunque, fu solo una semplice appendice, perchè la band subito dopo si sciolse e Iggy Pop optò per un propria carriera solista.
Il nome Vincent Furnier vi dice nulla? Niente? E il nome Alice Cooper? Va meglio? Vincente Furnier in arte Alice Cooper è stato l’uomo che ha shockato l’America. All’esordio, nel 1969, il nome Alice Cooper è semplicemente il nome della band. I primi due dischi Pretties For You (1969) e Easy Action (1970), usciti per l’etichetta di Frank Zappa, sono album tardo psichedelici. Con il terzo album, Love It To Death (1971), la storia cambia. La musica diventò più irruente, i testi più bizzarri. Vincent Fournier era un cantante così istrionico e pieno di carisma, che la personificazione del gruppo con il proprio singer fu tale che il nome Alice Cooper passò dalla band a lui. Il battesimo segnò a fuoco non solo la vita artistica del buon Vincent, ma anche la vita privata, da quel momento e fino ai primi anni novanta Alice Cooper dominò la volontà di Vincent portandolo ad una vita di eccessi alcolici. Comunque l’habitat dell’animale Alice Cooper è stato ed è il palco. Concerti grandgugnoleschi, che rappresentavano visivamente ciò che Alice cantava. Killer (1971), bissa il successo dell’album precedente e non fu da meno il successivo School’s Out (1972). Ogni album sollevava le proteste delle associazioni dei genitori statunitensi. In Alice le associazioni catto-fasciste videro l’incarnazione di Satana, ma sbagliavano, Alice è molto più brutto fisicamente! In realtà l’aspetto teatrale della musica fece perdere di vista agli ascoltatori meno attenti l’elevata critica sociale che si nascondeva nei testi. Alice non distruggeva i valori su cui gli States erano stati fondati, semplicemente metteva in evidenza come questi valori fossero già spariti ben prima che lui salisse alla ribalta. Quando una nazione è piena di problemi gli uomini migliori scendono in campo mossi dalla propria sensibilità sociale, dimenticando i propri interessi personali. La buona zia Alice non fu da meno, il singolo apripista del successivo album, Billion Dollars Babies (1973), Elected ne conteneva il programma elettorale. L’ironia era l’arma migliore di Vincent e lui non rinunciava ad utilizzarla. L’apoteosi cooperiana coincide con la sua opera più complessa. Welcome To My Nightmare (1975), una sorta di musical grottesco, ironico, sarcastico e pieno di personaggi inquietanti. L’eclettismo di scuola zappiana in questo disco esplode, mostrando come sotto il cerone ci fosse un artista vero. Da quel momento in poi i problemi di alcool si fecero sempre più pesanti, la carriera è andata avanti per tutti gli anni ottanta con dischi più ruffiani, ma è solo negli anni 90 che Vincent Furnier è riuscito a relegare la bestia Alice al solo palco, risolvendo così i propri problemi di dipendenza alcolica, senza che questo abbia nuociuto alla propria integrità artistica.
L’indurimento eccessivo del blues di scuola inglese era la peculiarità del gruppo sorto dalle ceneri di una gloriosa band beat inglese, gli Yardbirds (vedi Atlantide), ossia i Led Zeppelin. Il primo lavoro Led Zeppelin (1969), è emblematico in questo senso, con un paio di canzoni prese al patrimonio di Willie Dixon, You Shook Me e I Can’t Quit You Baby, più altri “scippi” blues auto accreditati da parte di Jimmy Page. Se Page con la sua chitarra era l’anima forte e nervosa dei Led, non erano da meno i suoi compagni di merenda, Robert Plant con la sua voce alta e squillante era straordinariamente evocativo e suggestivo, John Bonham con uno stile potente ed innovativo alla batteria fece fare un passo avanti nell’evoluzione della figura del batterista rock, ed infine, John Paul Jones con il suo basso nervoso creava il giusto tappeto per la sfuriate elettriche della band. Il successo, primo posto in Inghilterra ed in USA, arrivò con il secondo album, Led Zeppelin II (1969). Il disco parte subito forte con un’altra citazione di Willie Dixon, Whola Lotta Love, pezzo iper-blues all’inverosimile e carico di pathos sul quale si innalza l’ugola sensuale di Plant. Probabilmente qui nasce l’Hard Rock propriamente detto. Altri pezzi memorabili sono The Lemon Song, Heartbreacker o le ballate acustiche con richiami folk come Thank You o Ramale On. I Led Zeppelin erano ormai sul tetto del mondo, ma ci erano arrivati in modo inconsueto, cioè con sonorità a dir poco estreme per il periodo, scarsi passaggi radiofonici e televisivi, e soprattutto scarsa propensione ad apparizioni lontano dalle assi dei palcoscenici. Comunque l’ascesa continuò con il terzo lavoro, Led Zeppelin III (1970). Disco dalla copertina tardo psichedelica che si apre con Immigrant Song (proto-metal?), per passare con disinvoltura all’acustica Friends e al rock and roll di Celebration Day. Gallows Pole ci fa tornare con la mente ai tempi dei trovatori, mentre Tangerne ci ricorda con le sue note commoventi sonorità psichedeliche. Avendo sopportato sino a quel momento uno sforzo notevole per individuare i titoli dei propri album alla quarta uscita gli Zeppelin si riposarono, non dando il titolo all’album, che oggi indichiamo come Led Zeppelin IV (1971). In realtà la scelta di non dare titolo all’album non fu casuale. Page era ormai immerso nei propri studi magici, e nelle sue intenzioni il quarto disco doveva essere un opera esoterica, quindi niente titolo, abbandono dei nomi dei quattro a favore di simboli alchemici. Certo l’idea per l’epoca era all’avanguardia, ma ciò che resta è soprattutto la musica. La prima facciata del lp può essere considerato uno dei picchi artistici dei Led Zeppelin, Black Dog, Rock And Roll, The Battle Of Eversore e Stairway To Heaven, ogni musicista venderebbe la propria anima al diavolo (ma il diavolo che se ne fa delle anime?) per scrivere uno solo di questi pezzi. Il resto del disco resta comunque su livelli elevati. La sabbia inizia però ad entrare negli ingranaggi di quella che sino a quel momento era stata una macchina perfetta. Nel quinto album House Of The Holy (1973), con qualche spunto vagamente progressive, i pezzi grandiosi, come No Quarter, Rain Song e The Song Remain The Same non mancano, ma qualcosa scricchiola. Tra il ’73 e il ’75, i Led presero una pausa per quanto concerneva l’attività live e fondarono la propria etichetta la Swan Song. Il primo disco pubblicato per la propria etichetta fu Physical Graffiti (1975), e forse in modo più o meno inconscio questo disco si dimostrò il canto del cigno, profetizzato dal nome dell’etichetta. Opera mastodontica che si dipana su quattro facciate, contiene i primi tentativi di contaminazione con la musica etnica, che poi esploderà circa una ventina di anni dopo nel progetto Page/Plant, dove non mancano le ottime canzoni come l’orientaleggiante Kashmir, la dura Custard Pie o la sognate In The Light. Si susseguirono nel tempo altri tre lavori Presence (1976), The Song Remain The Same (1976) doppio album dal vivo colonna sonora del medesimo documentario e l’ultimo album In Trough The Out Door (1979). La morte di John Bonham nel settembre del 1980 decretò la fine del volo del dirigibile, ultimo sussulto fu Coda (1982) raccolta di inediti e scarti del periodo 69-78.
Un anno dopo l’uscita dei primi due dischi dei Led Zeppelin, l’etichetta progressive Vertigo pubblica l’opera prima di un gruppo di Birmingham i Black Sabbath. Disco che, da un lato andò a rafforzare la nascente scena Hard Rock e dall’altro andò ad influenzare altri generi ancora lontani dal nascere in primis il metal, sia dal punto di vista sonoro che iconografico\tematico, ed il dark solo per l’aspetto iconografico ed in parte tematico. Se in quegli anni gli ultimi hippies cantavano di mettere i fiori nei cannoni i Black Sabbath ponevano i fiori sulla tomba del pianeta Terra. La pioggia che fa da incipit al primo disco Black Sabbath (1970), non è una pioggia mondante di manzoniana memoria, ma bensì un segno funesto che ci avvisa che al mondo ci sono cose invisibili orribili, ma mai tanto quanto quelle visibili. I quattro cavalieri rispondevano ai nomi di Ozzy Ousbourne (voce), Tony Iommi (chitarra), Geezer Butler (basso) e Bill Ward (batteria). La band si riunì sotto il nome Earth, per poi cambiarlo in Black Sabbath, pagando così un tributo al padre dell’horror all’italiana Mario Bava. Dal punto di vista sonoro il disco di esordio paga ancora retaggio alla scuola blues inglese, ma ciò che in realtà era innovativo era l’oscurità e la lentezza con cui le note si dipanavano. La voce di Ozzy era sgraziatamente sublime e narrava storie che non vorremmo mai sentire, il suono del basso era avvolgente e la batteria pesante, la chitarra era ossessiva e ripetitiva. La title track è il manifesto del pensiero dei quattro di Birmingham, The Wizard è un blues con tanto di intro con armonica a bocca, N.I.B. (Nativity In Black) è una rock and roll song che ci avverte che non solo a Natale nascono personaggi divini, Sleeping Village è un rock-jazz fumoso. In realtà buona parte del successo del disco è dovuto alla puzza di zolfo che circondava il tutto, e i quattro, pur non avendo mai abbracciato il satanismo, continuarono a giocare con questa errata credenza visto che effettivamente sviluppò un notevole interesse intorno al gruppo. Il secondo disco invece fu registrato in pochissimi giorni sullo studio mobile della Vertigo, durante il tour promozionale dei Black Sabbath. Il disco doveva intitolarsi War Pigs, prova tangibile è la copertina che riporta un guerriero in salsa psichedelica, ma che all’ultimo momento fu intitolato Paraonid (1970), dato l’incredibile successo che la canzone omonima aveva ottenuto in Inghilterra. Paranoid, la canzone, è uno stato mentale, l’inno di chi non si ritrovava ne nei colori del beat ne tantomeno nella raffinatezza del prog. War Pigs è un inno antimilitarista in forma allegorica, Iron Man profetizzava il controllo delle macchine sull’uomo, Electric Funeral è la fotografia dell’apocalisse secondo i canoni del ventesimo secolo. Master Of Reality (1971), è l’opera terza. Il suono si fa più pesante, meno blues. Ozzy decanta le qualità della marijuana in Sweet Leaf, Solitude è una ballata dal forte sapore decadente. Il successivo Volume 4 (1972), è contraddistinto dalle prime novità introdotte nel suono dei Sabs. In particolare Iommi, iniziò a sperimentare soluzioni più vicine al progressive, con l’introduzione della tastiera che doveva accompagnare il tradizionale suono monolitico del gruppo. Soluzioni progressive elettroniche, si fecero più audaci nel successivo Sabbath Bloody Sabbath (1973), alle tastiere fu chiamato addirittura Rick Wakeman degli Yes, anche se in realtà non apparve nei credits. Il disco è un capolavoro, una delle vette artistiche dei quattro anche se ormai distante dalle sonorità blueseggianti degli inizi. Il successivo Sabotage (1975), fu il canto del cigno della formazione classica. Non manca lo spazio per gli ultimi grandi classici dell’epoca Osbourne, ma si intuisce che ormai qualcosa si era rotto sotto gli eccessi dell’alcol e della droga. Ozzy iniziò a dare i primi segni di insofferenza nei confronti del gruppo, le mode musicali erano cambiate, il punk la faceva da padrone facendo apparire troppo vetusto il suono della band di Birmingham. Nonostante questo nel 1976 fu pubblicato Techincal Ecstasy, disco accolto malissimo dai fans dell’epoca e che tuttora viene considerato l’anello debole della discografia “classica”. In realtà l’insuccesso fu dovuto al radicale cambio di sonorità a favore di melodie più solari. Il disco in definitiva va ricordato per la presenza della prima canzone non cantata da Ozzy su un album, la canzone è It’s All Right e fu cantata da Ward. Ozzy lasciò il gruppo e i tre lo sostituirono, senza grandi risultati, con un comune amico un certo Dave Walker, che però si dimostrò inadatto alle idee del padre\padrone Iommi. La carriera solista di Ozzy, attratto da sonorità più selvagge rispetto alla voglia di pomposità di quel periodo di Iommy, si rivelò insoddisfacente, e cosi l’ex macellaio tornò all’ovile. L’album venne intitolato in modo ironico Never Say Die (1978). L’album era tutta farina di Iommi e le parti vocali furono scritte da Ward, Ozzy si limitò a cantarle. L’album, come il suo predecessore si rivelò molto debole, e nonostante gli ottimi risultati dal vivo, Ozzy ritornò su i propri passi ed abbandonò la band. Stavolta non ci furono ripensamenti da entrambe le parti, i Sabbath scritturarono l’ex Rainbow Dio, mentre Ozzy iniziò una proficua carriere solista, ma questi sono già gli anni ottanta.
Il trambusto causato dai Black Sabbath nel mondo musicale non tardò a fare proseliti. I primi a goderne furono gli inglesi Black Widow, che poterono sfruttare i vantaggi derivanti da una voce messa in circolazione dalla Vertigo secondo la quale, al termine di un concerto tenuto da Black Sabbath insieme ai Black Widow, i membri di entrambi i gruppi avessero officiato un rito satanico con tanto di scazzottata finale! Al di là dell’aspetto puramente folcloristico i Black Widow pur trattando tematiche affini a quelle dei Black Sabbath, ne erano diversi sia dal punto di vista musicale che tematico.
Il suono della vedova nera era più raffinato e progressivo, mentre se per i Black Sabbath le novelle gotiche raccontate nei testi erano una chiara metafora del marcio della società in cui vivevano, per i Black Widow i testi erano semplici storie senza alcuna finalità allegorica. L’album con maggiore attinenza alle sonorità qui trattate è Sacrifice (1972), sabba musicale da un vago sapore ancestrale, che fu riportato sul palco con tanto di pantomima di messa satanica e sacrificio finale. La restante parte della breve discografia del gruppo, va ricondotta all’ambito più propriamente progressive. Altro gruppo oscuro è quello degli Atomic Rooster, autori di una perla oscura intitolata Death Walks Behind You (1971), dai toni vagamente progressivi soprattutto per la presenza dell’hammond di Vincent Crane. Gruppo dal passato oscuro e dalla carriera fulminea che ebbe l’onore di dividere il palco con i Black Sabbath sia nell’epoca Earth che durante il tour di Sabbath Bloody Sabbath, furono i Necromandus di Quicksand Dream (1972).
Gruppo tardo progressivo con influenze blues e psichedeliche, sotto la guida del tastierista John Lord, i Deep Purple raggiungono un discreto successo nel 68 con una cover di Hush pezzo in origine di Joe South, contenuto nel primo lp della band Shade Of Deep Purple (1968) a cui faranno seguito Book Of Talyesin (1969), Deep Purple (1969) e Concerto For Group And Orchestra (1970) disco questo ultimo, che rappresenta uno dei primi tentativi di coniugare rock e classica. La storia però cambiò quando nella band entrarono il cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover che andarono ad affiancare i vecchi membri: John Lord alle tastiere, Ian Paice alla batteria e sua maestà Ritchie Blackmore alla chitarra, dando origine a quella formazione passata alla storia come MK II. L’esordio della MK II su vinile è intitolato In Rock (1970), il centro del potere si sposta verso Ritchie Blackmore, il disco parte con la velocissima Speed King che segnerà le coordinate del nascente movimento Hard Rock così come Bloodsucker. La melodia non manca nel disco, Child In Time è da pelle d’oca anche dopo 35 anni. Il passo successivo fu Fireball (1971) che anche se non contiene i picchi dell’album precedente, è un ottimo viatico per il successivo album Machine Head (1972). Machine Head contiene quella che probabilmente, con Stairway To Heaven, è la canzone rock più famosa di tutti i tempi Smoke On The Water. Il celeberrimo pezzo però riesce comunque a far passare inosservati veri e propri capolavori come Never Before, When A Blind Man Cries e Highway Star. E’ il momento d’oro dei Deep Purple che fu immortalato sul più famoso live della storia del rock Made In Japan (1972) che altro non è che la sintesi di tre serate tenute in Giappone. I pezzi dal vivo acquistarono maggiore enfasi e forza, per portare la band direttamente nella leggenda. Se l’ingresso di Gillan e Glover aveva dato inizio al miglior periodo artistico, la fuoriuscita dei due non produsse un danno irrimediabile. La band certo non riuscì a mantenere i livelli artistici elevati raggiunti con il trittico di album griffati MK II, ma comunque rimase su livelli altissimi grazie ai due validi sostituti David Coverdale e Glen Hughes. Con questa formazione, MK III, i Deep Purple diedero alla luce due ottimi lavori: Burn (1974), che con la title track e Mistreated resta uno dei lavori più belli del Profondo Porpora, e l’epico Stormbringer (1974). Nell’aprile del 1975 Blackmore abbandona la nave. Seguire l’evolversi della carriera dei Nostri da questo momento in poi diventa impresa ardua, in quanto la band diventò un Grand Hotel con ritorni e dipartite eccellenti, in particolare si ricordano due re-union della MK II, la prima che portò a due lp Perfect Strangers (1984) e The House Of The Blue Light (1987), e la seconda che fruttò un solo album The Battle Rages On (1993).
Più conveniente è soffermarsi su due delle band nate dai Deep Purple. La prima è la creatura di Ritchie Blackmore rispondente, inizialmente, al nome di Ritchie Blackmore’s Rainbow e diventato, in seguito, semplicemente Rainbow. Finalmente, nei Rainbow Blackmore fu libero di fare esplodere il proprio ego e soprattutto di sviluppare maggiormente uno stile barocco che poco si addiceva alla svolta funk che il suono dei suoi vecchi compagni dei Purple stava compiendo. Chiamato ad affiancare Ritchie nei Rainbow fu un certo Ronnie James Dio, sin li cantante degli ELF. I due diedero vita a tre ottimi album, Ritchie Blackmore’s Rainbow (1975), Rising (1976) e Long Live Rock And Roll (1978). Nell’arco di questi tre album, a cui va aggiunto Rainbow On Stage (1977), si possono trovare grandi canzoni come Man On The Silver Mountain, Catch The Rainbow, Stargazer, Kill The King e Gates Of Babylon. Dio abbandonò il gruppo per entrare nei Black Sabbath orfani di Ozzy, prima, e cominciare una carriera solista, dopo. Blackmore continuò la propria avventura con l’arcobaleno circondandosi, di volta in volta, con artisti talentuosi e adottò sonorità più radiofoniche.
Altra band degna di nota sorta da una costola dei Deep Purple, sono i White Snake di David Coverdale, che per un certo periodo coinvolse altri Purples come Ian Paice e John Lord. In particolare vanno ricordati ottimi album all’insegna di un rock meno duro e più blueseggiante rispetto al sound dei Purple, quali Trouble (1978) e Love Hunter (1979).
1970, un gruppo impegnato nelle registrazioni del proprio album d’esordio, ascoltò casualmente la band impegnata nello studio accanto al proprio e ne rimase colpita dal suono particolare dell’organo, decidendo di aggiungere delle parti tastieristiche al proprio album. I tempi risultarono sbagliati, dato che l’album era già pronto, ma l’esperienza non risultò inutile, in quanto il tutto si concluse con l’ingresso in pianta stabile nel gruppo di un tastierista, che avrebbe preso dal secondo album in poi le redini compositive della band. Il gruppo rispondeva al nome dickensiano di Uriah Heep, e l’album d’esordio era …Very ‘eavy Very ‘umble (1970). Nonostante la scarsa incidenza delle tastiere, e il giudizio unanimemente negativo della critica musicale del periodo, l’album riscosse un discreto successo. Ma è con il secondo al album che vengono a galla le peculiarità del gruppo. Il tastierista Ken Hensley diventò parte integrante e pietra angolare del gruppo, ed andò ad affiancare il particolare stile vocale del cantante David Byron basato su un falsetto\vibrato molto caratteristico e la chitarra pesante di Mich Box. L’album fu intitolato Salisbury (1971), la copertina raffigurante un carroarmato schiacciatutto, e l’incipit del primo del primo brano, Bird Of Prey, misero in chiaro quelli che sarebbero stati i contenuti “belligeranti” del disco. Notevole la suite omonima finale, dal chiaro approccio progressivo. Il terzo disco Look At Yourself (1971), con la particolare copertina in cui ci si poteva specchiare, ma soprattutto il quarto album Demons And Wizards (1972), album più venduto della band, confermarono il gruppo in cima al gradimento del pubblico, ma non riuscirono mai a convincere la critica musicale. La carriera del gruppo continua in modo più o meno lineare tutt’oggi, regalando ancora album di pregevole rock duro dai forti connotati fantasy. Ah, dimenticavo il gruppo dello studio accanto erano i Deep Purple.
Cyber-punk prima di William Gibbson. Anticipatori dell’incubo del complotto alieno-governativo alla X-File. Signori e signore i Blue Oyster Cult. Nome oscuro che sembra raccontare più di quello che le singole tre parole che lo compongono dicano. Ci si domanda, cosa ci sarà dietro al culto dell’ostrica blu? Detto e fatto: una marca di birra. Ebbene si il nome del gruppo è il manifesto culturale della band statunitense. Gruppo colto del rock, come pochi, perennemente nascosto dietro una facciata ignorante. Perchè dire al mondo quello che sappiamo? Noi ci divertiamo ad apparire beceri ed ignoranti! Il mito dell’ostrica blu si regge soprattutto sul triangolo dei primi tre dischi. Dischi di per se separati ognuno dall’altro ma concettualmente uniti. Blue Oyster Cult (1970), Tirranny & Mutation (1971) e Secrete Treaties (1972). Il mostro a tre teste partorito dai Blue è una centrifuga in cui ci si può trovare scienza, metascienza e fantascienza, storia e leggenda, cultura motociclistica e Pablo Neruda, quotidiano e fantastico. L’aspetto lirico è fondamentale, il manager-giornalista Sandy Pearlman se ne occupava in modo brillante accompagnato nel suo compito, talune volte, da niente popò di meno che Patti Smith. E la musica? Grande musica gente! Ora elegante, ora dura, ora sognate, ora oscura. Gruppo per pochi, e non sappiamo neanche se buoni, come per esempio lo scribacchino da supermercato Stephen King, oppure il regista delle porcherie David Croneberg o per finire Moebius autore di quella forma espressiva minore che è il fumetto. Per amor di veritù, un discreto successo commerciale i B.O.C. lo hanno pure avuto con l’hit del quarto album, Agents Of Fortune (1974), Don’t Fear The Ripper. Pur seguendo il loro consiglio di non aver paura del mietitore, dopo più di tre decadi noi continuiamo ad aver paura del contenuto di quei tre dischetti dalle copertine strane, pubblicati tra il 70 e il 72.
Omonimi del bidone targato Liverpool, che militò nella Juventus, ma di classe ben superiore, i tre canadesi riuniti sotto il marchio Rush rappresentano l’esempio migliore di carriera lunga, intelligente e ricca di capolavori. In realtà il gruppo rischiò di morire nella culla, ma come Ercole riuscì a stritolare il serpente e sopravvivere. La culla artistica è rappresenta dai primi due zeppeliniani lp Rush (1974) e Fly By Night (1975), mentre il serpente è rappresentato dal terzo disco Caress Of Steel (1975). La casa discografica insoddisfatta a livello di vendite diede ai tre l’ultima possibilità. Geddy Lee, Alex Lifeson e Neil Peart, da trenta anni la stessa formazione, puntarono tutto su una forma che unisse l’hard rock dei Led Zeppelin a soluzioni di taglio progressive, il risultato fu intitolato 2112 (1976).
Album epocale, la suite omonima è poesia fantascientifica dalle atmosfere rarefatte, e riempie tutto il lato A del disco. Il lato B non è da meno con la speziata Passage To Bangkok e la bellissima Twilight Zone. Ormai la vena creativa dei tre aveva rotto gli argini, il successivo A Farwell To Kings (1977), storicamente meno importante del precedente ma dello stesso livello artistico qualitativo, contiene una suite, Xanadu, ispirata al Kubla Khan di Coleridge, e che presenta i Rush rinnovati nel sound. Il rinnovamento non termina neanche con il terzo capolavoro degli anni 70, Hemisphere (1978), che contiene la lunga title track e la strumentale Villa Strangiato vera delizia per le orecchie che rende chiaro il significato della copertina, un perfetto dandy della City londinese che passeggia su un cervello andando incontro ad un uomo nudo. L’evoluzione porta ad una svolta tastieristica che coincide con la fase ottantiana del gruppo, non tutti i vecchi fan apprezzano, ma la popolarità cresce grazie anche ad un suono più accessibile. Il sound torna ad indurirsi negli anni novanta senza perdere nulla a livello qualitativo. I Rush sono ancora tra noi, e sono pronti a stupirci, il serpente, invece, si narra sia tornato a tentare le donne sotto i meli dopo lo smacco ricevuto.
Da un ex colonia penale che tipo di musica poteva arrivare? Rock and Roll, maleducato ubriacone, sessista e maleducato! Ac/Dc. La band australiana è il rock and roll, immutabile, sempre simile a se stesso e che se ne frega di tutto e tutti. La fase degli anni settanta è quella legata allo sfortunato primo cantante Bon Scott, che si unì ai due fratelli fondatori Angus e Malcom Young. Partire dell’Australia per conquistare il mondo non è facile ma se i tuoi primi due dischi High Voltage (1974) e TNT (1975) vengono ristampati negli Usa, e qui esplodono, allora diventa tutto più semplice. La formula rock and roll e sudore piace agli americani che, se sono bravi ad esportare pace nel mondo, sono altrettanto bravi ad esportare i gusti. Il gioco è fatto, Dirty Dees Done Dirt Cheap (1976), Powerage (1978) sono dischi che consolidano la fama del gruppo. Le gesta dello “scolaretto” Angus Young, vengono immortalate sul celeberrimo live If You Want Blood, You’ve GotI It (1978). Ma tutto questo è solo il preludio a quello che sarà il vero primo successo commerciale del gruppo, ovverosia Highway To Hell (1979). I quattro australiani per arrivare al successo passarono da una formula rock and roll e grinta ad una forma rock roll e grinta! In realtà l’unico vero cambiamento lo si ha con la morte di Bon Scott a causa degli eccessi alcolici. Il colpo fu duro per la band che però nel 1980 pubblicò con il nuovo singer, che rimarrà tale anche dopo venticinque anni di permanenza nel gruppo Brian Johnson, quello che sicuramente è l’album più celebre della band Back In Black, continuando così una carriera che è tutt’oggi attiva.
Boston è una città che va citata in questa sede per due motivi, il primo che esiste(va) una band omonima, il secondo è che in questa città ha avuto i natali una delle più celebri band Hard Rock del pianeta, gli Aerosmith. I Boston, sono uno dei casi più eclatanti di esordio con il botto. La creatura del chitarrista con l’hit contenuta nel primo disco Boston (1976), More Than Feeling, riuscì a scalare le classifiche USA sino al primo posto. La formula era un Hard Rock melodico che tanto piacque alle radio statunitensi. In realtà se si esclude il secondo disco uscito in modo relativamente veloce Don’t Look Back (1978), il resto della carriera si è mantenuta su ritmi rilassati con uscite ogni otto anni Third Stage (1986) e Walk On (1994).
Per gli Aerosmith, problemi di stitichezza compositiva non ci sono mai stati, neanche nei momenti più brutti. L’esordio rollingstoniano, intitolato semplicemente Aerosmith (1973), nonostante contenga piccole gemme come Mama Kin e Dream On, passa quasi del tutto inosservato, così come il successivo Get Your Wings (1974). Come spesso accade è il terzo disco a portare alla ribalta un gruppo, ed è stato cosi anche per gli Aerosmith. Toys In The Attic (1975), con il proprio sound hard-blues è ben lontano dai suoni mielosi che contraddistingueranno la carriera negli anni 90 del gruppo. I toxic twins, Perry (chitarra) e Tyler (voce), mettono uno dietro l’altro tutta una serie di perle come, Walk This Way e Toys In The Attic. Non mancono le ballatone, come Sweet Emotion o You See Me Crying. Il successivo album, Rocks (1976), è il disco più oscuro pubblicato dai bostoniani e traspira tutta la depressione tossica del gruppo. Il disco è grandioso, Back In The Saddle, Nobody’s Fault sono alcune tra le canzoni più belle composte dagli aeroplani in 30 anni di carriera. Il successivo album Draw The Line (1977) è scialbo, mentre tanto potente quanto rozzo è il primo live album della band Live Bootleg (1978), che riesce in pieno ad evidenziare la carica hard rock del gruppo. I dissidi all’interno al gruppo erano ormai insanabili e Perry si escluse dal gioco mentre gli ex compagni pubblicarono un altro disco debole Night In The Ruts (1979). Dopo una lunga pausa nel 1985 i quattro bostoniani ritornarono alla formazione classica e di la iniziarono a salire la china sino a giungere negli anni novanta, grazie ad una manciata di ballatone per la Mtv generation, che non rendono onore al glorioso passato e a picchi di popolarità simili, se non superiori, a quelli degli anni settanta.
Se il rock and roll è un circo, e noi ascoltatori siamo i bambini, allora i pagliacci che tanto piacciono ai bambini sono i Kiss. Eccessivi, oltraggiosi, pacchiani, spettacolari. I quattro di New York sono il sogno di ogni bambino che si atteggia con una scopa a mo di chitarra davanti ad uno specchio. Se il sottoscritto sta scrivendo queste righe lo deve probabilmente ad un poster con le quattro facce con tanto di make-up rimirato intensamente chissà per quante ore, durante l’infanzia. L’esordio Kiss (1974), e il successivo Hotter Than Hell (1974), sono dischi di rock duro se non Heavy Metal ante litteram. L’aspetto musicale fu solo una parte del mondo dei Kiss, il vero fiore all’occhiello del gruppo fu il palco, dove i quatto si presentavano con i volti truccati e costumi di scena a dir poco bizzarri.
I Kiss riprendevano in parte la lezione di Alice Cooper, senza averne però la carica sarcastico/moralizzatrice, il loro testi erano meno impegnati e più party-oriented. Il terzo album Dressed To Kill (1975) contiene le prime concessioni alle melodie più facili, ma è il successivo doppio live, Alive (1975), la migliore fotografia del gruppo. Se il disco non permetteva di goderne degli eccessi visivi degli show dei quattro, permetteva di poter godere della potenza esecutiva. La Kiss mania imperversava negli States, pupazzi, magliette, cartelle e astucci scolastici, flipper e prodotti tra più i impensabili con le effigi dei quattro, furono commercializzati. I successivi album Destroyer (1976), Rock And Roll Over (1976), Love Gun (1977) e il secondo Alive (1977), confermarono i quattro supereroi in cima alle preferenze degli americani, anche se l’impressione che ormai di idee ce ne fossero poche è tanta. Il canto del cigno è Dynasty (1979), che contiene l’hit danzereccia ballata anche nelle balere delle periferie italiane, I Was Made For Loving You Baby. Avendo finito le idee non restava che mostrare il volto per ravvivare l’interesse del gruppo, ma se l’Uomo Tigre ci ha insegnato qualcosa è che il volto viene reso pubblico solo alla puntata finale. Infatti la mossa non portò a risultati particolari e i membri cambiarono velocemente ad ogni disco. Solo a fine anni novanta all’indomani di una partecipazione alla trasmissione Unplugged di Mtv che riscosse notevole successo, il Bacio decise di tornare insieme con tanto di make-up. Mossa che finora ha garantito un successo di pubblico negli Stati Uniti, che mostra come ai bambini il circo piaccia ancora.
La figura del barcaiolo si staglia dinnanzi a noi, questo può significare solo una cosa, il nostro tempo sull’isola è finito. Il nostro giro non ci ha chiarito se Avalon sia la tomba del rock and roll o semplicemente il filtro che ci permette di vedere ed ascoltare quello che i più non vedono e non ascoltano. Poco ci interessa, sappiamo dove trovare il barcaiolo, sappiamo che il viaggio ci costa due monete solamente e quando vorremo potremo tornarci. Risaliamo sulla barca, dietro di noi nebbia. Avanti a noi nebbia. Dietro di noi nebbia e la certezza della terra che abbiamo lasciato. Avanti a noi solo nebbia.
Note dell’autore
Oddio quanto ho scritto! Oddio quanto avete letto! (non avete barato saltando tutto ciò che c’è scritto prima per leggere solo sta parte, vero?). Non vi annoierò per molto ancora, sfrutto queste ultime righe per fare dei ringraziamenti, per porgere delle scuse e per fare un invito. Il ringraziamento è per coloro che mi hanno permesso di scrivere tutto ciò e mi riferisco a Roberto e a Francesco, che probabilmente non si aspettavano che avrei partorito una tale quantità di parole. Un ringraziamento va anche a chi ha avuto la pazienza di leggere, nonostante la prolificità e la difficoltà di alcuni concetti come mi avete fatto notare. Un grazie a tutti coloro i quali si prenderanno la briga di ascoltare quanto da me descritto. Le scuse sono rivolte a tutte quelle persone che leggendo si sono risentite per eventuali mie omissioni o miei errori, o per aver scritto meno su alcuni gruppi e più su altri (chi ha detto Black Sabbath?). Non sono infallibile e nonostante abbia accentrato le mie attenzioni sui grandi nomi, so che avrei dovuto citare per esempio Bowie, Zappa, Velvet Underground, Santana, Queen, Wishbone Ash e tanti altri gruppi che per un motivo od un altro non ho inserito. Spero che in seguito ci sia per me la possibilità di rimediare a queste lacune, andando, in particolare, a scrivere di gruppi meno famosi di quelli citati nei tre articoli (I nomi? No, non vene faccio). Infine l’invito. L’invito è rivolto a tutti coloro che vorranno scrivermi a questo contatto giuseppe@rawandwild.com, sono ben accette critiche (non avrete mai il numero di targa della mai macchina, sia ben chiaro!), consigli, scambi di opinione e soprattutto soffiate su gruppi sconosciuti. Credo che per il momento sia tutto.
Giuseppe Cassatella