
Ed ecco il quintetto The Halo Effect alle prese con il nuovo album… niente male come prospettiva per un divertissement, nevvero? Va detto che il concetto stesso dietro al ritorno di Stanne e Strömblad sotto lo stesso tetto era stata per me cosa buona e giusta, nonostante il tempo delle favole e quello delle passioni brucianti per i progetti che funzionano “sulla carta” siano esauriti da tempo.
Va detto che il concetto stesso di “sulla carta” si può applicare (almeno parzialmente) alla scuola di Gothenburg, sin da quando leggevo il buon Jesper dichiarare alla stampa italiana di aver trovato la crasi perfetta tra gli Iron Maiden e il folk delle rive del Baltico, e tuttavia i palpiti per In Flames e Dark Tranquillity dovevano passare attraverso cassette di dubbia qualità, articoli che portavano a fantasticare, e una scoperta definitiva arrivata leggermente fuori tempo massimo. Così, la mia passione per le “idee” espresse dai pionieri svedesi ha dovuto fare i conti con gli anni che passavano, fino a quando non ne ho visto qualcuno calcare i palchi, con alterne reazioni: due volte sono stato al cospetto dei Dark Tranquillity, la prima la ricordo con favore decisamente maggiore. Le conseguenze sono state due: apprezzare dischi poco amati dalla massa o sin troppo “modaioli”, e non dare giusto peso a lavori storicamente magari più “importanti”, cose così. Tipo apprezzare buona parte di “Lunar Strain”, riconoscere che “The Jester Race” sia invecchiato peggio di quanto avrei creduto e continuare ad apprezzare la sostanza “catchy” e a suo modo rivoluzionaria di “Clayman”, inopinatamente gettata alle ortiche con l’osceno remake di qualche anno fa. Ah, dei Dark Tranquillity mi piace molto “Haven”, tanto per dire.
Ora che l’outing è completo, posso parlare di “March of the Unheard”: a suo modo mi ha convinto anche più di “Days of the Lost”, forse perché quella premura di rispettare le aspettative si è trasformata in “mestiere” consumato, o per meglio dire si è ri-trasformata, data la carriera di tutto rispetto degli attori in campo. Sicuramente Mikael Stanne canta meglio di quanto ha fatto negli ultimi dischi (quanti e quali sono?) della band madre, ma altrettanto sicuramente – pur non trattandosi di un lavoro epocale – quest’album realizza appieno lo scopo del gruppo e dell’atto compositivo: strizzare l’occhio agli orfani di “quelle” sonorità che si sono man mano andate perdendo con la naturale (e per me indigesta) evoluzione di quei pionieri, realizzando un album bello e perfettamente godibile.
Quanti pezzi belli, quanti filler, quante canzoni centrate e quante occasioni perse? Ha davvero importanza? Se è vero che difficilmente metterete in repeat “Between Directions”, è altrettanto vero che il modernismo di “What We Become” ha il sapore dello steampunk, essendo quelle sonorità già state teorizzate nell’anno fatale 2000, all’epoca del famigerato “Haven”. Per non parlare di episodi come “The Burning Point”, sorta di valzerone sotto gli stendardi del regno scandinavo, con le opportune lezioni di Harris & Co. a far bella mostra di sé sui consumati solchi.
E poi, l’appetito è ben saziato con l’uno/due che tutti si aspetterebbero, quello tra l’opener a testa bassa “Conspire to Deceive” e la sferragliante “Detonate”, che con il suo deciso aumento di velocità rispetto alla precedente non fa altro che ricalcare lo schema vincente di “Clayman”, citando peraltro sia “Pinball Map” che “Only for the Weak”. E poi, a fare da spina dorsale di “March of the Unheard” è la great rock’n’roll swindle per i melodic deathsters dei giorni nostri: quel refrain sin troppo familiare di “The Curse of Silence” che sfocia nell’azzeccata title track da manuale (altro centro pieno assieme a “Detonate”) fino a tornare inesorabile su “Coda”, altro che le pristine tradizioni di “Starforsaken”. Quando infine pensi di avere davanti “Square Nothing” sotto mentite spoglie, la verità appare chiara e limpida: non è nient’altro che “Dry County”, pezzone a firma Bon Jovi tratto da un disco a suo modo fin de siècle come “Keep the Faith” che vide a un tempo la fine della formazione originale della band del New Jersey e le ultime velleità vagamente “hard” dei rockers platinati appena usciti dagli anni ’80.
Insomma, eravamo partiti dalla crasi tra la terra dei Goti e quella degli East Enders, e siamo finiti sulla costa del New England. Poco male, nulla di ciò scalfisce (tutt’altro!) il valore affettivo che chi sa può dare al nuovo disco degli Halo Effect. Anzi, agli Halo Effect. Anzi, a Stanne, Strömblad e a tutti gli altri, che fanno capolino per noi come fossero usciti dalle pagine di una di quelle riviste specializzate, che fanno capolino dalle vostre librerie polverose…
Voto: 8/10
Francesco Faniello
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