
Oh, lo so benissimo che ‘Moongazer’ dei Tenebra ha fatto irruzione sul mercato (?!?) del retro rock italiano e ha superato tutte le pur elevate aspettative collocate sul quartetto! Resta però il fatto che prima di leggere l’imminente recensione a opera del buon Daniele del secondo full length dei bolognesi (vero che è pronta?), mi faceva piacere scrivere due righe su questo dischetto uscito a fine 2021 e che segna la partecipazione della band alla serie di EP pensati per l’anniversario della label New Heavy Sounds. Ovviamente si tratta di un prodotto a tiratura limitata, ma che a mio parere resta fondamentale per segnare il passaggio dal debut album al blasonato successore.
Tre i pezzi inclusi, a partire da un elemento fisso delle scalette dal vivo dei Tenebra, quella “Cracked Path” il cui arpeggio nell’incipit lascerebbe intravedere orizzonti di occulto provvidenzialmente riportati su tinte forti dalle vocals di Silvia Fennino; il brano si snoda senza fretta e appare quasi “edit”, rispetto alle versioni che siamo avvezzi a sentire dal vivo, acido e pachidermico a un tempo. A seguire, un inedito dal titolo “Hard Luck”, che procede su ruote ingrassate dal fango con le sue variazioni melodiche ma soprattutto con una girandola quasi circense che costituisce l’ossatura di quella che è una vera e propria seconda parte. Quasi quasi tirerei in ballo il grunge, non credo che sia peccato mortale!
Diciamocelo, il motivo per cui ‘What We Do Is Sacred’ resterà nella Storia è perché vi è contenuta la cover dei Jerusalem, ‘Primitive Man’; ecco, qui i Tenebra ci deliziano su una lezione su come far “propri” i pezzi della tradizione settantiana, da un lato ingrossandone il sound grazie all’apporto delle corde vocali di Silvia (e di una sezione ritmica sempre in prima linea), dall’altro riscrivendone le coordinate utilizzando un elemento filologicamente corretto, quale l’inserto di flauto – qui a opera di Giorgio degli Assumption. E in tutto ciò, i Tenebra ci regalano anche una piccola lezione di Storia (della Musica), poiché il ripescaggio del classico dei Jerusalem ha l’effetto di una collezione personale aperta sul mondo, dato che la formula dell’oscura band britannica pescava a piene mani dal fiorente panorama dell’epoca senza però lesinare ammiccamenti alla sensibilità hendrixiana.
Sia che preferiate la dimensione live che quella in studio, vi auguro buon ascolto!
Voto: 7,5/10
Francesco Faniello