Roma aspettava questa sera da dieci anni, da quando Gli Opeth vennero nel 1996 di supporto ai Cradle of Filth; che questo giorno fosse atteso da molti lo dimostra il SOLD-OUT dell’Alpheus già da qualche giorno e la coda fuori dai cancelli del locale già dalle 18:30. I fans della band scandinava sono giunti da buona parte del meridione e ciò evidente dal mix di dialetti che si sentono durante l’attesa prima di entrare.
Sono passate le 21 quando salgono sul palco i britannici Amplifier che riescono a scaldare il pubblico con un rock psichedelico ricco di spunti interessanti. Il sound dei tre è ricco di effetti ed improvvisazioni con qualche riferimento ai Tool.
Tecnicamente il gruppo si fa valere e strappa più di un applauso al pubblico che però fa fatica a nascondere l’attesa spasmodica per gli headliner della serata.
Dopo una mezza dozzina di brani gli Amplifier si congedano e comincia il cambio-palco, lasciando che pianpiano la strumentazione degli Opeth venga alla luce. Sono circa le 22:30 quando Mikael Akefeldt e soci cominciano accolti da una ovazione.
Ad aprire le danze l’opener di “Ghost Reveries”, Ghost of Perdition che stupisce negativamente per la scarsa qualità dei suoni impastatissimi (specie la voce) e positivamente per l’incredibile partecipazione del pit che pare aver gradito molto l’ultima release dei nostri e ne canta a squarciagola ogni parola. E’ il turno di When da “My arms your hearse” e si ritorna di colpo al vecchio sound Opeth con i 5 implacabili sul palco. Penso fosse curiosità di molti scoprire come si sarebbe comportato Axenrot dietro le pelli. E’ difficile da rimpiazzare una figura come Martin Lopez e il “nuovo acquisto” dimostra di essere ben inserito nel meccanismo Opeth e la sua è una prova energica e tutto sommato precisa sia nelle parti più complesse che in quelle tranquille.
E’ il turno di Bleak da Blackwater Park alla quale segue l’ intensissima Face of Melinda durante la quale in più di un momento pareva il tempo si fosse fermato.
Nota stonata il comportamento immaturo di alcuni fans che evidentemente, non abituati ad un sound intelligente e “sentito”, credevano di stare ad una sagra di paese con grida sguaiate e commenti fuori luogo che in certi momenti sovrastavano la voce di Mike. La presenza sul palco di Akerfeldt è cambiata molto negli anni e negli ultimi due il frontman ha acquisito una certa “verve” di intrattenitore improvvisando siparietti con il pubblico che si sono ripetuti anche in questa intensa serata all’Alpheus.
Come già detto gli Opeth tornano a Roma dopo 10 anni e dopo questo lungo periodo i nostri si esibiscono (come successe allora) in una incredibile “The night and the silent water” carica di pathos ed energia. Sul palco la staticità dei tre chitarristi si contrappone alla frenesia di Wiberg e Axenrot alle loro spalle offrendo un contrasto di particolare effetto scenico.
Si ritorna all’ultima release della band con una tostissima “The Grand Conjuration” ,accolta con grande calore dai presenti, per tornare poi ad un momento soft con la pi� tranquilla Windowpane dal Settantiano “Damnation”. Per chiudere momentaneamente la scaletta i nostri si affidano ad una pesante “Blackwater Park” dall’omonimo album, anche se questa scelta pare discutibile a fronte della vasta scelta di brani dai quali il gruppo pu� attingere; una volta che i 5 lasciano il palco c’è da parte del pubblico la consapevolezza che torneranno per il bis, cosa che succede dopo qualche minuto di attesa quando, dopo la presentazione di tutti i componenti da parte di Mikael (Axenrot viene accolto da una incredibile ovazione che credo nessuno di loro si aspettasse), gli Opeth attaccano con una devastante Deliverance che chiude in bellezza la serata. Solo una conferma stasera, che ci troviamo di fronte ad un gruppo che ha ancora molto da dire e che in sede live fornisce prestazioni che rasentano la perfezione.
Angelo Talia